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Il rischio dell’amor perduto

Febbraio 19, 2018
Quest’ultimo periodo conosce pesanti dinamiche di incapacità di manifestazione affettiva, che sfociano in ansia, problemi sessuali, relazionali ….
I più divengono dei pezzi di ghiaccio che urgono uno sblocco dei flussi energetici e, spesso, i più fragili si danno a evasioni estreme quali droghe, sesso estremo con soggetti “estremi”, violenze domestiche e non…
Questa necessità di perfezione, propria del periodo attuale, derivante dal non riuscire ad ammettere a se stessi il fallimento, fisico, morale, sessuale e, soprattutto, di carriera, non fa altro che rendere infelici, chi di motivi di infelicità propriamente non ne ha.
La capacità di accettazione dell’insuccesso, quale base prodromica al successo e l’importanza del saper non aspettarsi nulla di più di quello che ognuno può darsi e dare può essere la salvezza. Il così detto “detto” napoletano “futtitinne”… Quanto è liberatoria questa espressione?
Tutto parte dalla paura dell’errore, dell’insuccesso e dunque dalla sofferenza. Dalla paura che l’altro o le cose possano cambiare e dunque non essere più perfette come dovrebbero essere allo stato attuale e che, in ogni caso non sono. Da ciò emerge il blocco, che consiste nel fortissimo programma inconscio “il non rischio mi salva”. Non rischiare, come dicono in molti equivale a non vivere. Il ghiacciolo vivente.
Il non far nulla porta al non rischio e dunque al non amore. Se non si fa nulla, non si rischia, non si muore (forse) e non si soffre.
Ecco però cosa accade se non si ama, vive, rischia.
D’Avenia, nel suo ultimo libro, raccolta di storie di Amore, di personaggi illustri del passato parla, tra le altre avventure, di Orfeo  del Suo famoso mito.
PolizianoFabula di Orfeo, 237.: “Io te la rendo, ma con queste leggi: / che lei ti segua per la ceca via / ma che tu mai la sua faccia non veggi / finché tra i vivi pervenuta sia!
Rilievo con Orfeo, Euridice ed Hermes, copia di età augustea di un originale greco del V secolo a.C.di scuola fidiaca, marmo (Napoli, Museo Archeologico Nazionale)
Amando Euridice, Orfeo ha fatto esperienza della morte e ha rischiato. Ricorda, infatti, che per amare veramente bisogna entrare in un territorio che potrebbe essere l’origine della felicità, senza tuttavia averne il dominio.
Secondo Jung, inoltre, si vive di ciò che si dona. «L’amore è un concetto estensibile che va dal cielo all’inferno, riunisce in sé il bene e il male, il sublime e l’infinito.»
Lasciando il flusso dell’Amore scorrere, se ne viene di nuovo “colpiti”. E’ il fluire la salvezza. Il fiume scorre senza paura di dove andrà e per questo crea un enorme flusso di energia, purificatorio e libero.
Il rischio dell’amore è vita e la fortuna di ogni umano è saper smettere di controllare la vita, accettare la paura di essere mortali e cominciare a essere realmente viventi. Solo in tal modo possiamo smettere di essere ghiaccioli, in attesa di essere “disibernati”.
Questa patologica necessità di essere autosufficienti per paura di venire scalpiti nel proprio intimo non fa altro che creare ibernazioni mentali, spirituali e fisiche e distacco dal fluire del fiume e dalla energia creativa.
Inizialmente l’amare offre una sensazione inebriante di immortalità, chi ama non ha più paura di nulla,  si sente fortissimo e potente.
L’atto di costruzione dell’amore richiede poi necessariamente il ricordo della propria mortalità, in modo tale da riuscire ad aderire alla propria ombra, raggiungendo, così uno stato di giovinezza perenne. Questa è l’arte dell’amore.
Per amare è fondamentale lo stato di esseri mortali, se non si è mortali non si è in grado di amare. Gli dei non possono saperne nulla … Il Cupido che trafigge il cuore ci rende dei perfetti mortali innamorati. Con la freccia di Cupido nel cuore, non siamo più intonsi e protetti, abbiamo una apertura, non siamo più autosufficienti ed entriamo nel rischio della vita.
Ma allora gli dei antichi come possono saperne dell’amore essendo immortali?
Eppure:
«Quando la psicologia archetipica parla di amore, essa procede in modo mitico perché è obbligata a ricordare che anche l’amore è non umano. Il suo potere cosmogonico, al quale partecipano anche gli esseri umani, è personificato da Dei e Dee dell’amore.
Quando le cosmogonie situano l’amore al principio, essi si riferiscono a Eros, a un daimon o a un Dio, e non semplicemente a un sentimento umano. Il potere cosmogonico dell’amore di strutturare un mondo attira in esso gli esseri umani in conformità con i vari stili di Dei dell’amore.
Vi sono, inoltre, stili di amore che si manifestano in divinità apparentemente estranee all’amore:
– Atena ama Ulisse coi suoi consigli,con la sua protezione e il suo aiuto a riunirsi con Penelope;
– Ermes ama Priamo col suo intervento nel furtivo accordo notturno per riottenere il corpo del figlio ucciso.
Ciascun Dio ama a suo modo: quando Zeus dà il suo amore a una donna mortale avviene uno splendido disastro con un risultato eccezionale, a sua volta ben diverso dai disastrosi effetti degli inseguimenti di Apollo.
L’amore di Arianna può abbracciare sia il duro guerriero Teseo sia Dioniso molle di vino. Ciò di cui abbiamo bisogno è una psicologia archetipica dell’amore, un esame dell’amore alla luce del mito.» (James Hillman – Re-Visione della psicologia – Adelphi, pp.311-312).
Qual è dunque il legame vero che libera e permette di rischiare?  Gli amori che levano la libertà creano dipendenza ed ogni genere di dipendenza è distruttiva. I legami veri liberano, un amore che può essere visto come la corda che permette di scalare la parete. Solo accettando l’altro come oltre, come avventura rischiosa e differente da sé. L’amore è possibile solo se si guarda oltre il già noto.
« […] E’ piuttosto l’incapacità di amare che priva l’uomo delle sue possibilità. Questo mondo è vuoto solo per colui che non sa dirigere la sua libido sulle cose e sugli uomini, e conferir loro a suo talento vita e bellezza. Ciò che dunque ci costringe a creare, traendolo da noi stessi, un surrogato, non è una carenza esterna di oggetti, ma la nostra incapacità di abbracciare con amore una cosa che stia al di fuori di noi.
[…] Mai difficoltà concrete potranno costringere la libido a regredire durevolmente a un punto tale da provocare l’insorgere di una nevrosi. Manca qui il conflitto che è il presupposto di ogni nevrosi.
Solo una resistenza, che contrapponga il suo non volere al volere, è in grado di produrre quella regressione che può essere il punto di partenza di un disturbo psicogeno. La resistenza contro l’amore genera l’incapacità all’amore, oppure tal incapacità può operare come resistenza
(C.G. Jung – Simboli della Trasformazione, p.175)
Trasgredire è la parola dell’amore. Oggi, invece, non essendo più capaci di amare, nel senso di dare, accogliere e ricevere, si trasgredisce in modalità dannose per sé e per il prossimo e, proprio perché il bisogno è innato, non se ne può fare a meno della trasgressione. Tuttavia, non canalizzando in modo corretto, si trasgredisce con “porcherie” becere ed ignoranti. Ignoranti perché ignorano l’amore e danneggiano gli umani.
Tornando ad Ovidio, dunque, la stessa paura di Orfeo che ha nell’andare nell’aldilà, ma che poi supera, impedisce di conoscere l’amore “trasgressivo”. In latino:- egredi = andare; trans- = oltre. Se si accetta la paura la si affronta, lì si trova la gioia, il proprio amore. Orfeo la vince e scende negli inferi, ove trova Euridice. Dunque accettare il taglio, che ci separa dall’altro, uscendo dalle proprie certezze, dalla propria autosufficienza e dal proprio egoismo.
Oggi, forse, per soccombere questa incapacità, si va solo “oltre” … Oltre con ogni genere di eccesso al fine ultimo di provare un surrogato del piacere dell’amore: droghe, foto estetiche in rete, consenso sociale derivante da post insignificanti e da c.d. “like” fuori luogo, sesso trasgressivo, dipendenza da alcool, muscoli pompati, gioco d’azzardo, cibo …
Si vive un amore ridotto ad una serie di piaceri effimeri, che fanno regredire alla propria pienezza infantile di bimbo immortale. “L’altro non diventa mai veramente un altro, un alieno, direbbe il latino (colui che viene fuori), ma rimane una proiezione di me, utile al piacere, che si illude di essere trasgressivo, ma che di trasgressivo non ha nulla, tanto che alla lunga annoia.” (D’Avenia)
Tutto per non vivere il semplice e onesto sentimento d’amore.
La vera trasgressione dell’amore, grazie alla semplice e basilare conoscenza della morte può sciogliere il ghiacciolo, che il tempo e le esperienze hanno formato.
Se si impara che il tempo che passa lo si può affrontare in due nella consapevolezza unica e totale per cui non si può avere conoscenza di se stessi, se non attraverso la relazione con l’altro si scopre che amare non è il controllo dell’amato e tanto meno di se stessi, ma una danza a due per la conoscenza di sé, grazie a quell’altro da sé, che altro non è che lo specchio di sé.
“L’amore serve a far la morte amica. Un villaggio giapponese conserva un’antica consuetudine: prima di sposarsi o di avere un figlio, ogni donna deve prestare i riti finali  a un corpo morto, prepararlo per la sepoltura. Non si può amare un uomo, non si può dare vita a un figlio, se non si sa cosa siano la gravità e il silenzio della morte. In quel momento la donna diventa consapevole di ciò che sta per affrontare e impara che il suo dare la vita è forte come la morte. Non è un caso che noi uomini siamo attratti dalla pancia scoperta di una donna: mentre quella di un uomo ci ricorda solo il cibo, quella di una donna ci fa sentire la presenza di uno spazio vitale, dell’antidoto alla morte. La pancia di un uomo è una pancia, la pancia di una donna è un grembo, dove la vita può essere tessuta, dove l’amore si fa storia.” (D’Avenia)
D.S.
Fonti:
  • Ogni storia è una storia d’amore, Alessandro D’Avenia

L’Amore secondo il grande psicologo C.G. Jung: si vive di ciò che si dona

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